Covid-19 è il primo regime a imporsi in Italia nel nuovo millennio: come i suoi predecessori, ha condotto a novità a cui non eravamo preparati, abbiamo sottovalutato il problema. E abbiamo sbagliato.
Tralasciando altri aspetti su cui il Coronavirus ha impattato, una grande rivoluzione è stata operata sulle relazioni: abbiamo dovuto imparare a gestire la nostra sfera relazionale rinunciando all’immediatezza delle soluzioni.
Sappiamo che la normalità è un concetto che ci avvolge lentamente, trova le sue condizioni ideali e si consolida. Il virus che ha colpito il nostro pianeta negli ultimi mesi invece , ha fatto irruzione bruscamente e senza quasi lasciarci il tempo di costruire delle mura difensive resistenti. Almeno, non intorno a noi. Ma tra di noi?
A livello semantico e storico, le mura hanno un doppia funzione : quella di separare e quella di confinare. Così, molti sono stati costretti a lasciare in stand-by la propria vita affettiva e relazionale o a trovare delle scappatoie che permettano di mantenere l’illusione della normalità , pur sapendo che l’ “hic et nunc” non è momentanemente possibile. Non per tutti la linea che separa l’ essere da soli e l’essere soli è netta e nitida, per questo ad alcuni tocca di scendere a patti con la solitudine e costringersi alla compagnia di chi si conosce da una vita ma con cui si è sempre dialogato poco.
Altri invece stanno cercando di gestire le difficoltà di vivere un’ affettività diventata denominatore comune di ogni vicenda quotidiana, ben lontana dall’ essere idilliaca. Parliamo ad esempio delle coppie, dei coinquilini, dei fratelli, di tutti coloro che condividono uno stesso tetto. Ed è così che il rapporto tradizionale caratterizzato dalla gioia del ritrovarsi, rischia di trasformarsi in una relazione di natura “invischiata” in cui il concetto stesso di “Io” vacilla per lasciare spazio a un “noi” inevitabile. Ed è così che la casa diventa una grande cassa armonica che amplifica la conflittualità, ma da cui il suono non può uscire. In questo modo, il non – me diventa un concetto sempre meno tangibile.
Qualora la persona si trovi in una delle due condizioni precedentemente citate, mi piace ricorrere alla metafora di un attore di teatro che si trova in un caso a vedere la sua performance sminuita e resa scialba dall’assenza di un pubblico, e nell’altro ad essere sottoposto a un tour de force di repliche con scarse possibilità di togliere il costume di scena.
Ma è nelle situazioni quotidiane in cui si torna brevemente ad incontrarsi in cui ritengo risieda il rischio più grande: “l’altro” che più che mai ci fa paura. In questo momento, il nemico è qualcosa di difficile comprensione e privo di volto: come i bambini con il lupo cattivo, anche noi cerchiamo di attribuire delle fattezze a una paura che forse sta più in profondità.
Ed è forse la diffidenza l’arma di più facile utilizzo per difendersi dal contagio: un passo indietro e una svolta su quella via piuttosto che sull’ altra, il cambiare marciapiede, le mani in tasca e lo sguardo altrove.
Concludendo, come ogni tempesta finirà anche Covid-19 e starà a noi raccogliere i cocci, rimettere insieme i pezzi e ricostruire i ponti; ma non sarà troppo faticoso, perché a ricostruire accanto a noi ci saranno tutti coloro che abbiamo finalmente potuto riabbracciare.
Edoardo Martinasso
Dottore in Scienze e tecniche psicologiche
Centro di Psicologia Ulisse